“SE TI TAGLIASSERO A PEZZETTI, IL VENTO LI RACCOGLIEREBBE”

Da Euronomade

“Se ti tagliassero a pezzetti, il vento li raccoglierebbe” – 1

una corrispondenza da Macerata: riceviamo e ben volentieri pubblichiamo (prima parte) – EN.

unutmadık inandık
bulanmadık bilendik, geldik
geldik İzmit, İstanbul, Ankara, Amed
geldik Fatsa, Hopa, İzmir, Atina, Botan, Antakya, Homos, Delzor, Rojava, Roma, Kies, Berlin,
ve tüm Latin Amerika ve kara kıta
biz geldik biz
biz ırk değil sınıf kardeşleri

***

non abbiamo dimenticato, ci abbiamo creduto
non abbiamo vacillato, ce l’abbiamo messa tutta, siamo arrivat*

siamo arrivat* İzmit, İstanbul, Ankara, Amed

siamo arrivat* Fatsa, Hopa, Smirne, Atene, Botan, Antakya, Homos, Delzor, Rojava, Roma, Kiev, Berlino

e tutta l’America Latina e il continente nero
siamo arrivat* noi
noi non siamo una razza ma sorelle e fratelli di classe

Bandista, Bakıyoruz Dünyaya (Guardiamo il mondo)

I fatti tragici di Macerata non sono la conseguenza di tragiche coincidenze. Sono l’effetto della legittimazione sociale, culturale e istituzionale di tre forme di violenza strutturale. Quando la violenza di genere e la violenza razziale sono sistematicamente strumentalizzate dalla violenza della lotta di classe per l’egemonia sociale succede che il fascismo strumentalizza politicamente la morte di una donna per sublimare l’odio di classe in odio razziale allo scopo di ottenere più potere.
Pamela Mastropietro è fuggita da una comunità per la cura di dipendenze patologiche ed è morta. Forse è morta per overdose ma, per saperlo con certezza, bisogna ancora aspettare i risultati degli esami tossicologici.
Innocent Oseghale è tuttora accusato di averne occultato e vilipeso il corpo morto, anche se finora non si è dichiarato responsabile. Ad ogni modo, a distanza di pochi giorni dalla morte di Pamela, il giudice per le indagini preliminari ha escluso che sia stato lui ad ammazzarla.
Luca Traini è accusato dagli inquirenti di strage aggravata da finalità di razzismo, anche se molte sono le persone che preferirebbero chiamarlo attacco terroristico di matrice fascista.
Jennifer Odion, Mahamadou Toure, Wilson Kofi, Festus Omagbon, Gideon Azeke e Omar Fadera sono capitati nel mirino della pistola di Luca Traini ma è andata bene che non sono morti. Loro non sono accusati di femminicidio come Innocent Oseghale ma, come lui, sono accusati dai fascisti di essere neri, anche se finora non hanno avuto più di tanto modo di potersi difendere dalla ferocia razzista.
Di tutt* loro è stato già detto troppo e troppo poco ma, prima di riproporre un elenco di alcuni dei problemi che sono emersi con la vicenda, preferisco raccontarvi come le percepisco io le Marche, con la speranza che le mie impressioni non siano troppo distanti da quelle di chi al momento è alle prese con le conseguenze della trasformazione di un fatto di cronaca nera in un caso politico (trans)nazionale. Me lo auguro davvero, perché in questi giorni non mi sento per niente distante da loro, perché il fascismo al quale resistiamo in Turchia si distingue solo per la diversità dei modi e dell’intensità ma la sostanza resta la stessa.

1. L’entroterra marchigiano, il risentimento mezzadrile e il desiderio di rivalsa post-mezzadrile

L’entroterra marchigiano è a ridosso dagli Appennini e comunque a meno di un’ora di distanza dalla costa, scarnificata ormai da decenni d’industria del turismo. Ho vissuto per tanti anni nell’entroterra marchigiano e ci torno ancora regolarmente, anche se la prima volta che visto la grande città mi sono innamorata della sensazione provata a camminare tra la folla. Sono cresciuta in un paesino a trenta chilometri da Macerata e, quando ero adolescente, odiavo fare le famose “vasche” su e giù sotto i portici della piazza facendo finta di guardare le vetrine dei negozi. Mi sentivo diversa e inferiore. Da piccola mia madre mi vestiva sempre con la tuta da ginnastica ma il sentimento di appartenenza di classe non è mica una questione soggettiva. La tuta era nascosta fino alle ginocchia dall’uniforme ma la classe la rivelavano pure il taglio del grembiule nero e la qualità del maledetto fiocco rosa legato al collo come un cappio. Ai tempi delle superiori non è che la situazione fosse migliorata di molto, perché non ce li avevo io i jeans firmati e il giubbetto Barbour da sfoggiare.
Tra l’altro la mia situazione era complicata dal fatto che il mio fidanzato di allora fosse di un paesino a quindici chilometri da lì, proprio a metà strada tra Macerata e il mio. Quando uscivamo poteva diventare un problema perché sarebbero state botte con quelli del mio paesino se fosse venuta in trasferta pure la cricca dei suoi amici con i motorini modificati. Erano gli anni ’90 e campanilismo è solo un eufemismo per descrivere l’odio con cui si cresceva nei bar e nelle sale giochi dell’entroterra marchigiano (come altrove immagino). Ma ovviamente non eravamo tutt* uguali. C’era chi a quell’età metteva su le prime band e passava il tempo nei garage che, tolto lo spazio necessario per la macchina a cinque porte dei genitori, diventavano sale prove a tutti gli effetti. Purtroppo c’è anche chi tuttora ci passa il tempo in quei bar e in quelle sale giochi, solo che tra un Campari e gin e l’altro ci si gioca anche buona parte dello stipendio striminzito.
Nonostante tutto, all’epoca della scuola elementare (che “primaria” lo sarebbe diventata solo parecchi anni dopo) io mi sentivo comunque “fortunata”, perché almeno non vivevo in campagna e avevo un motivo in meno per non vergognarmi con i compagni di classe che vivevano proprio a ridosso della piazza o nei vicoli retrostanti. In realtà il borgo dove i miei abitano ancora è in centro e dista solo pochi minuti a piedi dalla piazza, ma tanto i compagni ricchi delle elementari non lo sapevano che mio padre faceva il turnista nell’ufficio del cementificio della zona. Insieme alle cartiere, il cementificio ha rappresentato una sicurezza occupazionale per diverse persone dell’alto maceratese. Per lungo tempo è stato al centro di lotte sindacali ma ormai è chiuso, anche se è tuttora al centro di polemiche per questioni di sicurezza dell’ambiente e della salute degli abitanti della zona.
I miei compagni di classe ricchi non sapevano neanche che mia madre mi svegliava ogni mattina alle sei prima di andare a prendere l’autobus per raggiungere una delle fabbriche del settore tessile dell’alto maceratese. Grazie a lei ho capito veramente cosa voglia dire il concetto di produzione. Non ho mai finito di scrivere una tesi sulla produzione dello spazio pubblico a Istanbul ma ciò che avrei voluto dire è che, secondo me, parlare di produzione di spazio non basta più, perché magari sarebbe meglio chiamarlo stupro produttivo dello spazio per riferirci ai rapporti di produzione sociale della metropoli quando non sono consensuali e, a maggior ragione, quando le rivolte popolari lo gridano forte e chiaro. “(S)fortuna” che me lo spiegava mia madre quando aveva giusto quella mezz’ora di tempo per pensare alle faccende di casa prima di addormentarsi alle otto e mezza di sera. Diceva: “sono stanca, questi giorni c’è da lavorare più velocemente per finire la produzione”.
Quando in gita andammo a Parigi, il professore d’italiano ci portò a vedere la Sorbona e ci disse: “chissà magari qualcuno di voi verrà a studiare qui”. Io pensai: “sì, magari, lo sai benissimo che è impossibile”. A Macerata ci ho studiato, ci ho incontrato le prime persone che mi hanno fatto capire che, insieme, ci saremmo potut* liberare di tanti fardelli. Ci ho anche incontrato il primo amico gay della mia vita che un giorno mi disse: “ma tu pensi veramente che io sia contro natura?”. Nell’immensa tristezza di questi giorni una cosa positiva l’ho trovata: sapere che quelle persone erano tutte al presidio spontaneo antifascista ai giardini pubblici di Macerata per ribadire quel che vogliamo in tant*: fermare il terrorismo fascista e impedire che si dia spazio al razzismo.
Proprio qualche notte fa avevo iniziato a buttar giù una bozza per una lezione sulla regione Marche da fare qui in Turchia, perché anche chi s’interessa di cultura e società italiane conosce le Marche solo per la stagione lirica maceratese o al massimo per i colli di Giacomo Leopardi. Quanti di voi non sapevano neanche dell’esistenza di una cittadina di poco più di 40.000 abitanti in cui il fascismo è pericoloso tanto quanto nelle periferie romane? Beh, ora che le televisioni nazionali sono arrivate anche a Macerata non c’è bisogno di chiedere alle persone che erano al presidio ai giardini perché non hanno mai smesso di praticare l’antifascismo. Ve l’avrebbero saputo spiegare senza bisogno che Luca Traini premesse il grilletto. Ad esempio quelli del Csa Sisma vi avrebbero potuto raccontare di quando nel 2003 lottarono contro il tentativo di costruire un Centro di Permanenza Temporanea a Corridonia (che dista solo dieci chilometri da Macerata).
Ma davvero finora non sapevate nulla delle Marche? Guardate l’etichetta sulla linguetta delle vostre scarpe made-in-Italy e poi controllate su internet che, se non sono state prodotte in Veneto o in Toscana, allora quasi sicuramente sono made-in-Marche. “Lu scarpà” è infatti una delle espressioni chiavi per capire alcune delle divisioni che creano le soavi pieghe delle colline marchigiane. Ultimamente sono coltivate anche a pannelli solari ma da sempre sono coltivate soprattutto a vigneti, oliveti, girasoli e, ultimamente, anche a canapa da tessuto, ma purtroppo nell’immaginario collettivo dell’italiano medio hanno fatto fatica a competere con la rinomanza del paesaggio toscano. “Lu scarpà” è il produttore di scarpe ma l’espressione è fuorviante perché non si riferisce all’operaio dell’industria calzaturiera che materialmente le produce. Piuttosto rimanda al padrone proprietario della fabbrica e, in alcuni casi, anche di alcune rotonde, ovvero quando lu scarpà è talmente ricco che può permettersi di pagarne le concessioni pubblicitarie. È anche di questo che si parla in sociologia urbana quando si parla di privatizzazione dello spazio pubblico e di produzione di spazio per la rappresentazione di potere, o sbaglio? Lu scarpà è una figura importante da capire per capire la differenza tra il centro di Macerata città (più borghese rispetto ai paesini limitrofi), la zona dell’alto maceratese (post-feudale) e quella del fermano (quelli che potremmo definire i contadini arricchiti).
Nel cinema la figura dell’abitante dell’entroterra marchigiano diventa parodia e si trasforma nello stereotipo dell’italiano mediocre: un po’ troppo ignorante e privo di sufficiente spessore per raggiungere lo standard dell’italiano medio, a maggior ragione se pensiamo che parla l’italiano con un accento che a molte persone sembra buffo. A chi non conosce la zona magari gli accenti potrebbero sembrare tutti più o meno uguali, invece vi assicuro che basta spostarsi di poche decine di chilometri per sentire che ci sono posti in cui cambia addirittura l’uso dell’ausiliare, per cui il principio dell’intransitività dei verbi di movimento viene generalizzato e si applica a tutti i verbi. Ad esempio, nella zona del fermano “ho fatto” si dice “so’ fatto” (= sono fatto), ma non sono esperta di linguistica e glottodidattica per poter dire se, a lungo andare, si possa parlare di influenza sulla percezione della soggettività di chi compie o subisce un’azione.
Dov’è Fermo? A meno di cinquanta chilometri da Macerata. È lì che nel 2016 Amedeo Mancini uccise Emmanuel Chidi Nnamdi dopo aver chiamato sua moglie una “scimmia africana”. Dal fermano emergono però anche esempi di tentativi di riscatto sociale del marchigiano medio che passano per il rilancio della cultura locale. Nel mondo dello spettacolo la legittimazione della propria condizione sociale passa per la rivendicazione ironica delle proprie radici culturali. Stanco di essere preso in giro, il marchigiano tenta la via della stand-up comedy per fare satira anche (e soprattutto) sulla propria identità. Il comico Pier Massimo Macchini ne è un esempio così come lo è anche Giorgio Montanini, ma in questi ultimi giorni purtroppo c’è poco da ridere.
Ho fatto un giro rapido su una pagina Facebook di satira fascista giusto per capire quanto sono chiare le connessioni con le vignette degli anni ’30. Non ricordo esattamente quante notti sono passate da quando ho iniziato a preparare la bozza della presentazione sulle Marche ma ricordo con certezza che non era ancora passato il giorno della retorica della memoria, quindi era poco prima che Macerata diventasse un chiodo fisso della memoria collettiva a breve e lungo termine. Macerata e Fermo sono entrambe capoluogo di provincia, ma Macerata è diversa da Fermo non per la sostanza dei fatti ma solo per i modi e l’intensità in cui si sono verificati. La strumentalizzazione politica ha stuprato Macerata così come i coloni italiani stupravano le donne in Africa negli anni ’30. Per questo in questi giorni c’è chi cerca di ricordare al mondo che Macerata non era solo una bomba a orologeria disinnescata dagli eventi degli ultimi giorni.
Noto che sui social alcune persone fanno leva sul fatto che Macerata sia tra le dieci finaliste che si contendono il titolo di capitale italiana della cultura 2020. Le maceratesi e i maceratesi che ci speravano non sono pochi, e ci speravano non solo per la questione del riscatto sociale ma anche per l’eventuale impennata delle visite turistiche e soprattutto per l’eventuale contributo statale di un milione di euro. Il video presentato lo scorso 5 febbraio dal comune di Macerata alla commissione valutatrice pone l’accento sulle connessioni qualitative che rendono una cittadina di provincia globale come sono globali città come Londra e Istanbul. Ma Macerata sa di essere molto meno globale di Londra e Istanbul ed è proprio per questo che fa di tutto per accaparrarsi molti più turisti e studenti stranieri: perché conosce bene le ferree regole imposte dalle politiche neoliberali a chi si ostina ancora a giocare a risiko. È passata già una decina d’anni ma l’entroterra marchigiano se li ricorda bene gli effetti della crisi finanziaria del 2007-2008. Anch’io penso che il video rispecchi una problematicità di fondo, ma andateci voi adesso a Macerata a dirglielo se ce la fate, perché io proprio non me la sento in questo momento di farlo, soprattutto dopo che l’ho vista terrorizzata e traumatizzata dal terremoto che ha colpito il centro Italia nel 2016 e nel 2017.
Capito perché volevo preparare una lezione per la classe medio-alta turca che s’interessa di cultura e società italiane? Perché volevo dare voce a questo risentimento, perché, fatto salvo per alcuni posti, l’entroterra marchigiano non è mai riuscito a riscattarsi interamente dalla posizione subalterna a cui è soggetto da molto tempo. Stando a quanto dicono in parecchi, non ci è riuscito neanche con il terremoto. Ad esempio si lamentano che non gli è stato dato lo stesso spazio mediatico che è stato dato ad Amatrice. Non entro nel merito della questione della gestione dell’emergenza visto che non ne sono esperta come invece lo sono i diversi gruppi impegnati sul campo, compreso Terre in Moto Marche (che, guarda caso, in parte sono le stesse persone del Csa Sisma). Ma il dibattito sulla gestione dell’emergenza è più ampio di quello che si pensa quando si pensa alle famigerate “casette”, perché coinvolge – e soprattutto connette in maniera dialettica – due altri aspetti fondamentali: da un lato il bisogno e il desiderio di portare avanti le attività lavorative e dall’altro lo spettro inesorabile della speculazione nel settore delle costruzioni. E guarda caso chi è che si vanta di andare nelle Marche per incontrare “i terremotati dimenticati” mentre “i migranti stanno negli alberghi”? Sì, sì, è proprio Salvini!
Capito perché dico che le Marche sono una pluralità d’identità? Sì, come ogni luogo direte voi! Sì, solo che è in ballo anche un discorso di appartenenza che è politicamente ben più rilevante della diversità dialettale/linguistica e anche della diversità di gradazione di vini rossi e bianchi, anche perché il Conero, il Piceno, il Verdicchio di Jesi e il Verdicchio di Matelica sono tutti quanti buoni secondo me. Le Marche non sono né nord Italia né Mezzogiorno. Per lo meno è così che percepiscono se stesse e vengono percepite dal resto d’Italia. A ovest confinano con l’Umbria ma non penso di esagerare se dico che è un po’ come una semplice vicina di casa con la quale prendere un caffè una volta ogni tanto. Con le Marche l’Umbria condivide solo un pezzetto di parco dei Monti Sibillini, uno dei luoghi simbolici di cui buona parte della popolazione locale si è riappropriata con determinazione non solo per motivi legati all’identità territoriale ma ovviamente anche per motivi turistici e dunque economici.
Anzi, secondo me le Marche finiscono proprio alla Piana di Castelluccio di Norcia, famose per i colori pastello che la vallata assume in estate durante la fioritura delle lenticchie. Chi ha seguito il dibattito sul post-terremoto sa già che la Piana di Castelluccio è famosa anche per il progetto di costruzione di un centro commerciale pensato allo scopo di delocalizzare le attività e favorire la ripresa economica della zona. Alcune fonti dicono che sarà temporaneo e che non sarà una struttura in cemento, come se fosse sufficiente a non sfregiare l’identità naturale del luogo attraverso una forma più commercializzata di turistificazione rispetto a quella già esistente. Come se fosse possibile valutare il valore estetico di un prodotto architettonico senza tener conto che è sempre necessariamente dialetticamente connesso al suo valore politico. Sì, proprio come per la questione dello stile dell’architettura razionalista del periodo fascista che invece il comune di Bolzano è riuscito a risolvere mediando egregiamente tra le posizioni radicalmente differenti della popolazione locale, fascisti compresi.
Che ne dite? Sarà anche ora che cominciamo a ricordarci di più e più spesso che è proprio il Colosseo uno dei simboli più famosi del passato imperiale di cui si vantano con tanto onore i patrioti ai quali non gliene frega niente che il Colosseo sia anche un simbolo di schiavitù? Ma che! Al contrario, l’Italia con le ombre nere di quel passato ci attira milioni di turisti che molto probabilmente verrebbero lo stesso ad ammirarne la bellezza architettonica pure se ci mettessimo una bella scritta a neon come quella che hanno messo a Bolzano per dare un significato completamente altro alle parole di Mussolini filtrate da quelle della Arendt: ma quale “credere, obbedire, combattere”…”nessuno ha il diritto di obbedire”! Magari sarebbe ancora meglio se quelli mascherati da centurioni ne cercassero un altro di lavoro, più o meno informale di quello che si sono trovati già. La Raggi infatti l’ha messa proprio sul piano dei turisti. Ha detto che i centurioni gli disturbano la visita. Magari sulla piana di Castelluccio potremmo anche buttar su un’installazione multimediale che faccia provare ai turisti il brivido delle scosse di terremoto. Che ne dite?
A est le Marche confinano con il mare che, anche per chi vive nell’entroterra, costituisce una presenza rassicurante perché garantisce l’apertura dell’orizzonte. Da Ancona in su si sentono già quasi Romagna, una regione che non pochi marchigiani della mia età conoscono, perché hanno studiato in Emilia, a Bologna, o perché ci sono andati spesso a ballare. Spesso ci sono andati – e ci vanno ancora – spinti dall’insoddisfazione dell’offerta musicale marchigiana, anche se ultimamente nelle Marche stanno organizzando tanti eventi culturali e artistici di ottima qualità che ormai attirano anche hipster e non solo hipster da altre regioni. Nell’ascolano invece ce ne sono tanti di fascisti. Lo sa anche un mio amico del nord che da giovane stava con quelli delle Brigate Neroazzurre dell’Atalanta. Neanche lui però sapeva che la tifoseria calcistica maceratese è tradizionalmente di sinistra a differenza di quella ascolana.
Da Ascoli in giù in pratica è come se le Marche fossero un tutt’uno con l’Abruzzo e il Molise. E se conoscevamo poco le Marche, dubito che conosciamo meglio l’Abruzzo e il Molise. Le Puglie invece sono molto più lontane dell’Umbria e dell’Emilia Romagna, ma sono un po’ come le cugine di secondo grado per via dei tanti giovani che vanno a studiare all’università di Macerata e non solo. Lo so già quello che vi state chiedendo: e Roma? Quelli della seconda generazione che ci sono nati ovviamente hanno l’accento romano e non l’accento dei genitori, però ad agosto di solito scappano dall’afa romana per trovare riparo nei paesini degli Appennini (sempre nel caso in cui il terremoto non gli abbia reso inagibile la casa e sempre se i genitori non l’hanno già messa in vendita). I romano-marchigiani dell’altomaceratese ci tengono a far presente che gli piace l’aria di montagna perché li fa riprendere dal caos della città.
Come biasimarli? Perfino io che scappai dalle Marche grazie all’Erasmus sto imparando a riconoscere la bellezza del paesino di meno di centocinquanta abitanti dove sono nate e cresciute mia madre e le mie zie. Anziché poter andare a scuola, nell’immediato dopoguerra facevano chilometri a piedi con gli zoccoli per andare a “parare le vacche” sui monti o per andare a portare il pranzo a fratelli e cugini che bighellonavano anziché “parare le pecore”. Ora ce ne sono rimasti pochissimi di animali in quel paesino, perché noi che abbiamo studiato preferiamo non farlo il formaggio di pecora la mattina all’alba, però poi ci piace tanto degustarlo insieme al vino buono. A questo proposito rimando alla postilla scritta da un amico – maceratese e anche lui all’estero – al quale ho chiesto di leggere la bozza di questo testo. Mi ha fatto notare che “manca un po’ la questione del perché – soprattutto fuori dal contesto altomaceratese – di gente nelle campagne ce n’è stata sempre meno negli anni: la promessa di miglioramenti economici e di condizioni di vita che dovevano essere eterni”.
Così a lavorare i campi della vallata sono rimasti pochi giovani e soprattutto gli ultrasettantenni e gli ultraottantenni con cui mi fa sempre un grande piacere provare a fare una chiacchierata, anche se a volte vi garantisco che “ho sbroccato” più di una volta, proprio a voler utilizzare la stessa terminologia delle dichiarazioni di Traini. Curiosi come sono (a volte più di tanti miei coetanei quarantenni), mi chiedono che succede in Turchia. Siccome lo so dove va a finire, cerco di stoppare la conversazione prima che si arrivi alla Boldrini che fa venire tutti questi “migranti”, come se pensassero che fosse proprio lei a mandare a tutti un messaggino su whatsapp a dire “dai, forza, migrate e venite a rubarci il lavoro che qui c’è da fare la guerra civile per potersi prendere il potere!”. Una delle cose che ho notato in questo genere di conversazioni, e che secondo me è anche una delle cose tra le più importanti, è che neanche loro li chiamano più “immigrati” o “extracomunitari” ma per lo più “migranti”. Per questo penso che sarebbe meglio se per un po’ provassimo ad accantonare una delle categorie fondamentali della sociologia per trovare un termine sostitutivo che non sia stato già riassorbito e risignificato dai fascisti.
Anche se non si chiama Sant’Ilario, quel paesino dell’altomaceratese me ne ha riservata una in particolare di esperienza che mi ha temporaneamente derubato della capacità di reagire. Un paio di anni fa, quando il mare Adriatico era talmente inquinato che ci sono stati casi di bambini che sono finiti in ospedale, salta fuori la “vergara” di turno (la comare) che se ne esce con quella che lei pensava fosse una battuta divertente che traduco in italiano: “per forza il mare è sporco, con tutta quella gente che prova a venire su dall’Africa e ci muore, certo che il mare puzza di putrefatto”. Vi assicuro che è una delle poche volte che sono rimasta a bocca chiusa, perché davvero non mi è venuta in mente nessuna risposta abbastanza adeguata a tanta banalità dell’orrore.
Ora, che dire alla luce di questa panoramica sull’entroterra marchigiano? Prima di tutto vorrei ripetere ancora una volta che la prospettiva è estremamente soggettiva anche se ovviamente sappiamo tutt* che raccontare il personale è dare voce al politico, ma lo ribadisco nel caso non corrispondesse alle impressioni della popolazione che in quella zona ancora ci vive a differenza della sottoscritta. Insomma, che possiamo dire sulle Marche soprattutto quando lo scopo è riflettere su un possibile federalismo delle regioni e dei distretti? Potremmo parlare di una regione adriatica? Sicuramente sì, solo sinceramente non avrei la più pallida idea di come tracciare ogni eventuale confine amministrativo visto che, stando all’evidenza del caso, la regione è spaccata al suo interno in maniera profonda e trasversale dal conflitto tra fascisti e antifascisti. Sono d’accordo anch’io che proprio questa sarebbe la linea da proporre con maggiore determinazione per spartirsi il territorio nel breve termine finché nel frattempo cerchiamo di cambiare la società nel lungo termine.
Chiaramente non parlo di spartizione delle poltrone nelle amministrazioni cittadine ma proprio di spartizione fisica e confederazione alter-nazionalista, perché penso che comunque la stessa partecipazione transnazionale alla resistenza del Rojava confermi l’idea che la nazione resti una comunità immaginata di persone disposte a sacrificare la propria vita per portare solidarietà a persone che prima neanche si conoscevano (Anderson, (1991 [1983]) e che però condividono gli stessi valori non culturali ma sociali. La parte più complicata è ovviamente la risignificazione del concetto di nazione: stracciarle via i connotati culturali per rivestirla di contenuti sociali. Per dirla in altre parole, penso anch’io che sia il caso riscoprirsi popolo capace di riprendersi il potere. Solo che il popolo è un concetto che ha bisogno di essere spurgato dalle connotazioni etnico-culturali tanto quanto quello di nazione. Per questo penso che società interculturali possano essere veramente possibili, perché immagino che la diversità culturale non sia necessariamente un problema ma piuttosto una ricchezza all’interno di una comunità sociale che è tale proprio perché ha deciso di condividere gli spazi vitali, perché si è accordata su quali sono i valori sociali da condividere in tema di diritti.
Personalmente, ho qualche problema con l’idea di morire per la libertà di un’altra persona che non sia la sottoscritta per via di qualche trauma di ritorno, ma non per questo ho la benché minima intenzione di giudicare chi coraggiosamente sceglie di farlo, anzi. Anziché morire, ho sempre preferito vivere per difenderla la libertà e per riconquistarla ogni volta che me ne tagliano via un pezzetto, però non ho nessun problema con la possibilità di vivere in un posto che non sia quello in cui sono nata e cresciuta. Per questo sarei anche disposta a parlare di una dinamica che provvisoriamente potremmo chiamare dislocazione consensuale (perché, se invece fosse forzata, ovviamente continueremmo a chiamarla deportazione). Ma so benissimo che il famigerato attaccamento alle radici del proprio territorio non passa solo per l’insieme delle tradizioni culturali, tanto più che le culture non sono insiemi discreti, nonostante che in Italia – così come altrove – le destre continuino a sostenere fermamente il contrario. Condivido il pensiero di Achille Mbembe quando ha scritto che “essere nati in qualche posto è accaduto per caso, non per scelta” e che “sacralizzare le origini è un po’ come adorare i vitelli d’oro”, ma subito dopo mi chiedo pure chi mi credo di essere io per andare a dire ai produttori di latte e formaggio dell’entroterra marchigiano che, dopo il terremoto, avrebbero anche potuto lasciarle le loro zone e ricominciare tutto da un’altra parte.
Se il principio dell’autodeterminazione vale sia per me che per loro, allora riconoscere le contraddizioni socio-culturali è il primo passo necessario per superarle, anche se sicuramente non è sufficiente a convincere chi soffre di attacchi di xenofobia cronica che la (con)fusione delle culture non è necessariamente una perdita di identità e neanche per forza un arricchimento ma piuttosto una possibilità, un’alternativa allo Stato attuale, allo stesso tempo semplice e complessa, tanto complessa quanto l’eventuale ridistribuzione delle risorse del territorio tra fascisti e antifascisti. A questo proposito lascio ovviamente la parola agli esperti di politica economica e, soprattutto, agli esperti di economie alternative ispirate dalla solidarietà come principio fondamentale.

POSTILLA

Uno storico, maceratese all’estero, aggiunge delle piccole considerazioni. Pur apprezzando come l’autrice centri i punti focali della questione di classe nel territorio e di come sia andata sviluppandosi in decenni e decenni e riassumendo significati negli ultimi anni, c’è forse un momento su cui è necessario insistere: quello in cui il significato del concetto di classe veniva taciuto, o veniva mostrato senza che dovesse avere alcuna relazione con la realtà, e si usava giusto come categoria cognitiva. Sembrava che dovesse essersi perso. Questo periodo è grosso modo identificabile con il termine dell’urbanizzazione delle campagne intorno alle città, e questa postilla intende soffermarsi sul perché – soprattutto fuori dal contesto alto-maceratese – di gente nelle campagne ce n’è stata sempre di meno, mano a mano.
Siamo negli anni Cinquanta, ma anche Sessanta e Settanta, in ritardo di almeno dieci anni rispetto al resto d’Italia. Città come Macerata, Civitanova, Fermo sono in espansione urbanistica, e si mangiano le campagne intorno. Chi ci vive, però, non sembra mostrare preoccupazione: il miraggio della città è arrivato. Case nuove, e nuovi quartieri non socialmente malmessi come a Milano o a Roma. Per tutti si trova un posto di lavoro, e usiamo il maschile perché la prospettiva lavorativa è massimamente maschile: le vergare continuano a ritagliarsi i loro spazi di autorità nelle case, gli unici concessi dal modello patriarcale borghese di famiglia nucleare, mentre i patriarchi iniziano a uscire e ad affacciarsi al mondo del lavoro, e nel caso di Macerata – città ricca di uffici pubblici e privati – si tratta anche di buoni posti. Soprattutto, la figliolanza è al sicuro. Può anche studiare. I figli maschi avranno lavori più economicamente e ideologicamente gratificanti dei padri, e le figlie femmine – una volta trovato un buon partito – potranno pure pensare di trovare posto in qualche ufficio o a scuola. E sembra funzionare così, anche a dispetto della crisi del ’73.
I miglioramenti economici si vedono, si percepiscono come ascese nella scala sociale, e corrisponde loro una progressiva assimilazione alla cultura pubblica disegnata da uno Stato che si mostrava come garante supremo e continuo di ogni cambiamento in positivo. Da contadini a italiani. Tutto il resto – il ’77, le BR, il terrorismo nero – tocca marginalmente una regione che è provincia, nel macrocontesto Italia, e che sta bene. Quando lo tocca – come nel caso dei fratelli Peci – può far male, ma si butta sotto il tappeto, si trova la particolarità, l’aspetto che rende l’evento non strutturale ma incidentale e via, avanti.
Questi cambiamenti vennero visti sin dalla generazione dei nostri nonni e dei nostri genitori, la prima interessata all’urbanizzazione e la prima a raccoglierne i frutti non solo economici, ma anche sociali e culturali, come eterni e immutabili. Nulla può farci tornare indietro a un passato visto sempre più come di miseria, anche perché continuamente dipinto come tale; la storia va avanti, e dopotutto, nel discorso pubblico sviluppista e immanentista delle società di massa, esiste solo quando legittima l’esistente. Di storia globale poi, da noi, se ne è vista meno di tanti altri luoghi; a livello di storia collettiva, le esperienze si hanno tutt’al più per piccoli gruppi.
E negli anni Ottanta, la consacrazione: finisce la guerra fredda, con la vittoria politica ed economica di quella parte di mondo in cui si trovava anche l’Italia, anche le Marche. Due personaggi come Fukuyama e Huntington sostengono che la storia sia finita. Non ci saranno più nemici politici, che ora non hanno referenti perché si è affermato un modello unico di concepire i rapporti sociali; non ci saranno più crisi, con un modello economico che è destinato a funzionare per sempre e sempre da solo. I nostri figli, e ormai i nostri nipoti che sono appena nati – pensano i patriarchi – saranno al sicuro. Staranno ancora meglio.
E invece. Invece una crisi che dura dieci anni fa perdere il lavoro ai figli, e soprattutto alle figlie. E mostra come i nipoti, e soprattutto le nipoti, non abbiano niente. Neanche con una laurea. Niente lavoro, se si trova niente stipendio, se si ha niente pensione, niente casa di proprietà, niente risparmi da investire in subprime. A volte inizia ad affacciarsi il pensiero che questa crisi non passi più perché è sistemica. È strutturale, intrinseca al modo di produzione. Ma ormai non c’è più nessuno, a parlare di modi di produzione. E questa sensazione come trova sfogo? Come si canalizza, perché non resti a bruciare in fondo alle budella?
Ed è così che la storia, che si è tentato di tenere fuori dalla porta, torna non a bussare, ma a sfondare l’uscio della casa nucleare, della sicurezza di provincia di chi ha avuto fortuna a nascere in una determinata congiuntura.

la seconda parte è qui